Con la Legge Regionale 27 gennaio 2015, n.1 pubblicata nel BUR n.12/2015, la Regione Veneto ha approvato le modifiche della legge regionale recante le “norme per l’elezione del presidente della giunta del consiglio regionale” e confermato il comma 6 dell’articolo 13 della legge Regionale 16 gennaio 2012, n.5 (BUR n.7/2012) il quale impone che “In ogni lista provinciale, a pena d’inammissibilità, se il numero dei candidati è pari, ogni genere è rappresentato in misura eguale, se il numero dei candidati è dispari, ogni genere è rappresentato in numero non superiore di una unità rispetto all’altro genere. Nelle liste i nomi dei candidati sono alternati per genere”.
Che cosa vuol dire in buona sostanza? Che le tanto decantate “quote rosa” volute dal grande partito radical chic nel nome delle pari opportunità getta un discrimine elettorale che farebbe sussultare le suffragette nate un secolo prima dei gridi sessantottini “l’utero è mio e ne faccio quel che voglio io” e di cui oggi risentiamo l’eco mortifero.
Infatti, mentre nel 1869 si sviluppava nel Regno Unito il movimento femminile che rivendicava il diritto di voto per le donne per allargare la partecipazione democratica, nel 2015 si è arrivati al paradosso di pretendere che le liste di candidati al Consiglio Regionale abbia eguale rappresentanza di genere. Ma attenzione: si parla di genere, non di sesso. La sottile differenza rivela l’impostazione marcatamente ideologica di una siffatta norma che un domani potrebbe imporre le quote viola od arcobaleno e così via dal momento che l’identità di genere è ormai divenuta un fattore culturale talmente liquido da essersi già suddiviso in una cinquantina di rivoli diversi.
E qual è l’effetto immediato di un tale vincolo? Qualcuno, non a torto, potrebbe ritenere che il 50% di presenza femminile nelle liste elettorali garantirà una maggior presenza delle stesse in Consiglio Regionale, ma garantisce forse una maggior qualità della democrazia, della gestione del potere e della partecipazione? E c’è un secondo preoccupante punto della questione: in via ipotetica supponiamo che un partito ritenga che fra i propri membri vi siano solamente uomini meritevoli di candidatura, o perlomeno ve ne siano in una percentuale superiore al 50% dei posti in lista: che fa? Secondo il principio delle pari opportunità deve togliere qualche maschietto in favore di qualche donna, magari che eccella in bellezza e fascino e meno in intelligenza, ma a questo punto si legittima la domanda: e la tanto decantata meritocrazia? Beh, per quella l’Italia ed il Veneto possono attendere, ciò che conta è dire tra qualche mese che le donne in politica sono aumentate, ma non ci si meravigli se le donne che si interesseranno di politica saranno tante quante prima mentre l’astensionismo risulterà il primo partito in termini percentuali, nel pieno rispetto delle pari opportunità s’intende.

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