«Può la storia di una donna morta giovanissima testimoniare che la vita è un dono meraviglioso? Che seguire Cristo anche nella sofferenza ci apre alla luce?»
Mentre cerco risposta a queste domande alla Camera dei Deputati si consuma il dibattito sulle DAT in un’Aula deserta e – sollecitato pure da discussioni con fratelli nella fede ed amici “pagani” le cui domande e dubbi in fatto di fine-vita sono le medesime – mi sono chiesto: quale risposta noi cristiani potremmo dare alle questioni sollevate dalla “cultura della morte” che nel nome del principio di autodeterminazione dell’individuo vorrebbe elevare all’altare degli eroi coloro che optano per l’eutanasia, passiva o attiva?
Noi cristiani abbiamo dei testimoni autentici che prima di entrare nella Vita hanno attraversato il Calvario atroce della malattia e della sofferenza ed hanno trasfigurato il dolore in donazione?
Ed ecco la risposta: Chiara Corbella Petrillo e beata Chiara Luce Badano.
Due donne, due giovani, due spose di Cristo che hanno attraversato il Calvario nella malattia del tumore, e le somiglianze che l’accomunano sono parecchie. Andiamo con ordine.
Chiara Corbella Petrillo muore il 13 giugno 2012 a 28 anni. Dopo aver sofferto col marito la nascita al cielo di due bambini nati e morti mezz’ora dopo, ma che i medici avrebbero voluto far abortire già durante la gravidanza perché «tanto non c’era nulla da fare», al quinto mese della terza gravidanza scopre di avere un carcinoma alla lingua e per evitare pericoli al bambino sceglie di posticipare le cure a dopo il parto. Con la certezza di essere una malata terminale Chiara ed Enrico comprendono che la loro può diventare occasione di donazione. E così accade. La casa di campagna fuori Roma dove la famiglia si trasferisce nell’ultima fase di vita di Chiara diventa meta di pellegrinaggio di amici e conoscenti. Nonostante i dolori della malattia Chiara ha sempre una parola buona per tutti ed un sorriso che irradia luce. Sostenuta dai familiari e dal padre spirituale, padre Vito, Chiara vive la sofferenza come una preparazione all’incontro con lo sposo-Cristo. Mentre tutti invocano l’intervento miracoloso di Dio lei si affida alla Sua volontà come accaduto dopo aver ricevuto il responso definitivo dei medici: «Sai Cri» – disse alla sua migliore amica – «ho smesso di voler capire, altrimenti si impazzisce. E sto meglio. Ora sto in pace, ora prendo quello che viene. Lui sa quello che fa e fino ad ora non ci ha mai deluso. Poi capirò» e proseguì: «Poi per ogni giorno c’è la grazia. Giorno per giorno. Devo solo fare spazio».
Anche l’altra Chiara – Chiaretta per gli amici – “fare spazio” è stata dura appena avuta la conferma dai medici che era affetta da un osteosarcoma alla spalla. Era il 1989 e successivamente alle visite specialistiche del caso, una volta compreso di essere una malata terminale per Chiaretta si impone la scelta. Mamma Teresa osserva la figlia raccolta in un mistico silenzio nella sua cameretta, e dopo venticinque minuti si sente dire dalla figlia: «ora puoi parlare mamma». Chiaretta aveva cercato le ragioni profonde dell’insondabile mistero della sofferenza e dell’ingiustizia che la vita biologica colpiva una giovane non ancora diciottenne. Ma la sua formazione nel movimento dei Focolari e la sua devozione a Gesù abbandonato le avevano dato le chiavi di lettura necessarie per comprendere che la sua malattia sarebbe diventata occasione di donazione. E così fu. Come Chiara Corbella, anche la sua stanza di Sassello è diventata meta di interminabili pellegrinaggi da parte di amici e conoscenti, e ha sempre avuto parole buone da donare. Nonostante il corpo martoriato dalle piaghe chi la visitava testimoniava in Chiaretta un sorriso splendente, al punto che Chiara Lubich – la fondatrice dei Focolari – le diede il nuovo nome in Chiara Luce.
«Per lei il dolore, ogni dolore, non è una peste da scampare» ha testimoniato la sua migliore amica «né un nemico da combattere, e probabilmente neppure un ostacolo da superare: è piuttosto un’occasione da cogliere, un’opportunità preziosa per continuare nell’amore e nel suo personalissimo rapporto con Dio». Anche Chiaretta sognava di formare una famiglia, ma capì presto che il suo sposo sarebbe stato Cristo stesso ed amava ripetere: «se lo vuoi tu Gesù, lo voglio anch’io».
Similmente Chiara Corbella diceva: «Noi non ci sentiamo affatto coraggiosi perché in realtà l’unica cosa che abbiamo fatto è stata dire: Sì, passo per passo».
Un abbandono totale al Signore che non impediva di pregare per la guarigione, ma come Gesù nel Getsemani per Chiaretta e Chiara importava di più compiere la Sua volontà. E così, il 7 ottobre del 1990 Chiara Luce abbraccia il Padre eterno dopo essersi voltata verso sua madre dicendole: «mamma ciao, sii felice, perché io lo sono!».
Anche lei come Chiara Corbella, appena compiuto il trapasso fu accompagnata da canti, anche lei come Chiara Corbella fu vestita da sposa prima di essere deposta nella bara. Segno profetico della Chiesa-sposa e segno di contraddizione per tutti coloro che ritengono la sofferenza e la malattia come un incidente di percorso senza senso e perciò propongono alla società la via breve dell’eutanasia, della morte rapida, della morte scelta. Come se si potesse scegliere davvero quando come e dove morire.
Ma per le entrambe Chiara la trasfigurazione della sofferenza è stata possibile anche grazie alle comunità che avevano attorno, fatta di amici veri, di familiari generosi, di comunità di preghiera come il Rinnovamento nello Spirito Santo per i Petrillo e i Focolari per i Badano, di religiosi che hanno educato le due giovani a guardare oltre la croce e fissarsi sul crocefisso-risorto. La loro rete di fraternità via via si è fatta sempre più larga quasi che la sofferenza avesse qualcosa di fecondo, ed è proprio la fraternità unitamente alla preghiera che ha permesso di camminare in cordata. Se ci pensiamo bene la via Crucis di Gesù non è un atto comunitario? Non è anch’esso un camminare in cordata con familiari, conoscenti, aguzzini, sconosciuti? Tutti rapiti da quel corpo martoriato, tutti sconvolti da quello sguardo profondo e luminoso del Cristo sofferente.
Ed è proprio lo sguardo luminoso la caratteristica più comune alle due Chiara. «Lo sguardo esprime ciò che è nel cuore» disse Giovanni Paolo II, in queste due giovani è la cifra caratteristica del loro cammino terreno. È una luce che si diffonde ed irradia nei cuori di chi ha incontrato i volti di queste donne, una luce che brucia ma non consuma, una luce che avvolge. Una luce alimentata dalla preghiera e dai Sacramenti, dalla consapevolezza di appartenere a qualcun Altro al punto da trasformare il proprio capezzale in un piccolo santuario dove il Santissimo veniva adorato nel Tabernacolo del corpo sofferente.
Il Compendio di DSC al n.35 ci dice che “La rivelazione cristiana proietta una luce nuova sull’identità sulla vocazione e sul destino ultimo della persona e del genere umano”. Le storie di Chiara Luce Badano e Chiara Corbella Petrillo lo confermano e ci permettono di rispondere alla domanda iniziale: Sì, una donna morta giovanissima può testimoniare che la vita è un dono meraviglioso e rivelarci il senso cristiano della sofferenza.
Per questo “siamo nati, e non moriremo mai più”.
Articolo pubblicato per il blog Vedere OLTre