La quarta lezione della Scuola di Alta formazione politica della Fondazione Magna Carta ha visto la partecipazione del giudice della Corte Costituzionale, Nicolò Zanon. Quelli che seguono sono i miei appunti.

Il giudice tratta dell’argomento del rapporto di potere tra Stato e Regioni, e delle problematiche relative al riparto delle competenze (art. 117 Cost.) che con la pandemia è venuto ad accentuarsi. Si può parlare di babele istituzionale nel rapporto Stato-Regioni? Secondo il costituzionalista, ci sono stati molti cambiamenti culturali in la rappresentazione delle Regioni ha subito un mutamento. Le prime elezioni regionali si hanno nel 1970, quasi trent’anni dopo la Costituente. Fin dalla loro istituzione si sono create immediate differenze di gestione tra le regioni, differenze che hanno anche caratterizzato i colori politici delle stesse. Con la legge costituzionale del 1992 interviene una nuova riforma, che capovolge il criterio di competenza tra Stato e Regioni e definisce nuovi istituti di garanzia per la tutela delle autonomie regionali. Nel 2001 si riforma il Titolo V della Costituzione.

Nel dibattito che costantemente investe i rapporti di governo tra Stato e Regioni, si evince una notevole e dannosa instabilità di visione. Nel nostro assetto costituzionale, spiega il professore, abbiamo un’autonomia differenziata (vedi le Regioni a statuto speciale art.116 c.3 Cost.). Ma tale differenziazione regionale spesso è anche oggetto di fastidio da parte del mondo economico e imprenditoriale. Inoltre, se la Repubblica fosse tutta organizzata secondo il citato art. 116 c.3 verrebbe meno la validità dell’art.5 della Costituzione, che sancisce l’invisibilità della Nazione.

Nel tempo si sono sviluppate diverse formule, dalla più federalista alla più centralista. Una via intermedia è stata proposta – senza grandi successi – allo studio di macroregioni che avessero specifiche competenze su cui legiferare. Non mancano coloro che sostengono una sorta di clausola di supremazia dello Stato, a danno delle autonomie locali. Nei fatti, spiega il giudice, non si è mai realizzato il disegno di un Paese federale come pensato da Carlo Cattaneo. Se lo scopo era quello di avvicinare le Istituzioni al cittadino, rendendole più prossime, valorizzando anche le differenze territoriali, ciò trova ostacoli con l’esigenza di uniformità e – specialmente oggi – velocità che chiede un mercato sempre più globalizzato. Se di babele normativa si può parlare, ciò lo è in forza del fatto che con la riforma del 2001 non c’è stata volontà di realizzare una Camera delle Regioni la quale avrebbe favorito un maggior dialogo tra territori e Stato centrale. Invece, i conflitti di competenza impegnano ormai da vent’anni la Corte Costituzionale per circa il 50% del proprio lavoro. Il conflitto di competenze si è reso ancor più evidente durante la pandemia e nei mesi più difficili, con il moltiplicarsi di ordinanze sindacali, regionali talvolta in conflitto con i Dpcm governativi. Con un grave problema, ossia che si è inaugurata un’interpretazione della fonte per cui tutto ciò che non è esplicitamente vietato, è consentito. Un ulteriore problema creatosi nel rapporto tra Stato e Regioni, è che i provvedimenti di restrizione delle libertà fondamentali sono stati adottati con strumenti amministrativi e – ancor più che in passato – ha sospeso la democrazia parlamentare.

Un secondo aspetto trattato dal giudice è quello della forma di governo regionale. I governi delle Regioni godono di una stabilità politica che a livello centrale è da tutti auspicata, ma mai realizzata. Questo ha permesso che le Regioni acquisissero un peso politico maggiore, con un’influenza politica crescente degli stessi Presidenti legittimati da un forte consenso popolare. In forza di un Parlamento sempre più debole, di una rischiosa sovrapposizione dei poteri esecutivo e legislativo, secondo Zanon il ruolo delle Regioni può diventare un contrappeso utile nel bilanciamento dei poteri rispetto al governo centrale. La separazione dei poteri, infatti, può essere orizzontale (in senso istituzionale) ma anche verticale (in senso territoriale). Ossia, se il Parlamento non fa più opposizione, meglio che a fare opposizione siano le Regioni – in termini di dialettica, confronto e bilanciamento dei poteri – altrimenti il contratto sociale scambio-protezione-obbedienza rischia di andare ad esclusivo favore del sovrano centrale.

Per concludere, le Regioni sono passate da essere Enti senza volto, ad Enti che si preoccupano e si fanno carico dei diritti fondamentali dei propri cittadini, di fronte ad un governo centrale sempre più forte e pervasivo. Traspare quindi una preoccupazione di fondo che dovrebbe investire l’agenda dei partiti: con un Parlamento debole e depotenziato, senza un’autonomia regionale capace di contrastare le fughe centripete del governo centrale (e anche dell’Europa), il rischio di un nuovo dirigismo statalista non può essere escluso.

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