L’ANTEFATTO
Veneto. Aprile 2020. Lunedì di Pasqua. Ore 20:00.
Un Project Manager (PM) di una cooperativa sociale che aveva in appalto servizi di gestione dell’accoglienza di persone in grave disagio abitativo e sociale, riceveva una telefonata dal proprio Datore di Lavoro (DL) con una richiesta urgente: l’Ente pubblico committente chiedeva di trovare un hotel per trasferire entro una settimana un gruppo di quaranta persone richiedenti asilo politico, potenzialmente infette da Covid-19, in periferia della città capoluogo.
Il PM che era il più alto in grado nell’ufficio d’area ma l’ultimo arrivato rispetto ai membri operativi, tra i suoi compiti svolgeva attività di ricerca immobiliare finalizzata all’abitazione assistita di nuclei familiari e singoli, aveva già la soluzione pronta. Ma non aveva la minima idea dell’impatto che avrebbe avuto questa risoluzione tanto gradita alla dirigenza, sul team di lavoro.
- L’ANTEFATTO
- IL TEAM DI LAVORO
- UN TURNOVER AZIENDALE ALTISSIMO
- IL FATTORE DIROMPENTE
- L’EFFETTO FIAMMIFERO
- QUALI SONO STATE LE CAUSE CHE HANNO INGENERATO UN TALE SCONQUASSAMENTO?
IL TEAM DI LAVORO
L’ufficio che gestiva il PM era un’unità distinta all’interno dell’organizzazione aziendale. Oltre al PM figuravano:
- n.1 segretaria a part-time orizzontale
- n.1 coordinatore di progetto area accoglienza e servizi socio-assistenziali, full-time
- n.1 coordinatrice di progetti area servizi educativi, sociali e socio-sanitari, part-time orizzontale
L’equipe dell’area accoglienza si occupava della gestione di quasi trecento richiedenti asilo politico, dislocati in diverse abitazioni (Centri di Accoglienza Straordinaria) sparse nella provincia, ed era così composta:
- n.6 operatrici sociali con qualifiche che spaziavano dalla laurea in scienze sociali a quella in scienze dell’educazione, n.3 t. determinato part-time orizzontale, e n.3 full-time con contratto a tempo indeterminato
- n.1 fattorino con ruolo di trasfertista, t. determinato part-time orizzontale
- n.1 manutentore generico, t. determinato full-time condiviso con altre aree
Ogni operatrice sociale aveva in carico dalle 20 alle 40 persone, a seconda che si trattassero di singoli o di nuclei familiari, e dovevano occuparsi di tutto quanto era previsto dall’appalto: dal trasporto verso le strutture pubbliche, all’assistenza per le procedure di riconoscimento, gestione degli appartamenti, consegna delle spese alimentari, gestione dei conflitti tra coabitanti, ecc. Inoltre, ogni settimana, si riunivano con il coordinatore di progetti per fare il punto della situazione, suddividere i compiti per la settimana successiva, concordare i turni di reperibilità per le emergenze che si verificavano sempre e ad ogni ora, rendicontare all’ufficio, pianificare e concordare i trasporti socio-sanitari e le manutenzioni dei CAS. I ritmi di lavoro erano serrati, ma le operatrici sapevano di lavorare per una missione umanitaria e questo era l’elemento che cementava il gruppo che lavorava coeso, si spalleggiava e aveva – di fatto – una totale autonomia operativa supervisionata dal coordinatore. Questo rendeva l’equipe un’unità non direttamente controllabile da parte del c.d.A. generando tensioni continue in direzione verticale.
Il coordinatore di progetto era una figura carismatica e competente sia per la gestione del team operativo, che per la mediazione con gli ispettori dell’appalto, ma era inviso all’ufficio amministrativo che lo riteneva inefficiente nella gestione dei costi, mentre non aveva alcun rapporto con l’ufficio HR.


La segretaria aveva il compito di interloquire con gli uffici amministrativi degli Organi di Polizia preposti alla gestione delle pratiche burocratiche per i richiedenti asilo politico, e per alcuni periodi svolgeva funzioni supplenti con l’ufficio HR o di segreteria front-office all’ingresso degli uffici. Aveva, di fatto, funzione esclusivamente burocratica.
Il project manager aveva un mansionario articolato (vedi la job profile) ed era la figura preposta per trasferire le direttive aziendali ai coordinatori e ai team operativi, tuttavia svolgeva anche compiti operativi di supplenza.
UN TURNOVER AZIENDALE ALTISSIMO
La cooperativa era parte di un gruppo consorziato di altre cooperative che facevano tutte capo ad un unico c.d.A. La caratteristica principale dell’organizzazione era la continua riorganizzazione interna di funzioni e ruoli, con spostamenti fisici di postazioni d’ufficio, procedure in continuo cambiamento, ed una rotazione del personale molto alta. Un dipendente su due non superava i 18 mesi di lavoro, poi si dimetteva. L’ufficio HR, in particolare, da gennaio ad aprile cambiava 4 membri di cui uno durava a malapena due settimane.
IL FATTORE DIROMPENTE
Con il lockdown totale imposto dalle autorità, le operatrici potevano muoversi in tutta la provincia con speciali deroghe ed autorizzazioni da parte della Prefettura, rientrando in un ambito lavorativo esente da restrizioni totali. Tuttavia la cooperativa, prevedendo un impatto economico, decideva di accedere alla Cassa Integrazione e di ruotare il personale riducendone l’orario settimanale di lavoro.
Concomitante a questa decisione, venivano posti in smartworking tutti gli uffici direzionali e veniva sospeso l’ufficio qualità, mentre l’RSPP rimetteva il proprio mandato lasciando vacante la posizione.
L’EFFETTO FIAMMIFERO
Le crescenti problematiche, che si sommavano all’inizio dei contagi intra-aziendali, andavano ad acuire una situazione di conflitto già in atto tra la direzione e l’amministrazione e l’equipe operativa. Il Project Manager si trovava a dover gestire continuamente il conflitto gerarchico, trovandosi in una posizione di legittimazione del ruolo a livello verticale ma senza aver autorevolezza sull’equipe che rispondeva direttamente e solamente al coordinatore di progetto. Il PM si trovava in mezzo a due fuochi: da un lato stava risolvendo un grave problema, anche di ordine pubblico, dall’altro l’equipe sentiva scaricata addosso tutta la pressione e non si vedeva adeguatamente supportata. A poco valevano le riunioni da remoto con uno studio specializzato in consulenza organizzativa e coaching. L’emergenza incalzava e i problemi crescevano, impattando pesantemente su tutto l’ufficio dell’area sociale.
In particolare affiorava sempre di più uno scollamento tra mission e vision dell’azienda sullo specifico progetto accoglienza, rispetto alla mission e vision dell’equipe riguardo il medesimo. A ciò si andava ad aggiungere la percezione di palese incoerenza tra la richiesta dell’Azienda di fare sacrifici in un momento di incertezza, e all’aumento del carico di lavoro contestuale alla riduzione dell’orario di lavoro.

Le emergenze proseguivano, i problemi aumentavano, i conflitti non si risolvevano. Così iniziavano i primi segnali di cedimento con l’annuncio di un’operatrice con esperienza senior, che era il braccio destro del coordinatore del progetto, la quale decideva di lasciare la cooperativa ma non l’ambito di lavoro anzi, sceglieva addirittura di partire per un’esperienza di sei mesi in un importante campo profughi nel Mediterraneo. Il primo fiammifero era acceso ed era solo questione di tempo.
I fiammiferi hanno iniziato a prendere fuoco uno dopo l’altro, e nei sei mesi successivi l’effetto fiammifero ha provocato le dimissioni a catena di tutte le operatrici senior (il 50% dell’equipe) e del coordinatore di progetto, decapitando l’equipe già tramortita. Ad ottobre era solo questione di settimane che saltasse per aria l’intera area sociale. Al lockdown e agli impatti diretti dovuti al progetto che accoglieva in emergenza quaranta richiedenti asilo politico in un “hotel quarantena”, si aggiungevano i crescenti malumori dell’equipe, i contagi tra dipendenti e i primi cluster di contagiati nelle case dislocate in provincia, le dimissioni a catena, l’ingresso di nuovi operatori che dopo poche settimane si dimettevano impauriti del carico lavorativo e della confusione organizzativa, fino allo shock definitivo con l’accesso a nuovi e complessi appalti che mandavano completamente in tilt l’ufficio. Il Project Manager iniziava a manifestare evidenti segni di burnout, che scoppiava con l’infezione da Covid-19 portandolo a sospendersi dal lavoro ed infine alle dimissioni.

QUALI SONO STATE LE CAUSE CHE HANNO INGENERATO UN TALE SCONQUASSAMENTO?
Il problema era preesistente al periodo di emergenza, ma i due shock organizzativi (hotel quarantena, e nuovi appalti) presentatisi in modo consequenziale, a distanza di pochi mesi, hanno fatto letteralmente esplodere una condizione di malessere che serpeggiava nel team di lavoro e cresceva di intensità al presentarsi di ogni nuova situazione lavorativa, finché il team non è esploso quando ha percepito come incoerente la richiesta di sacrificio da parte della dirigenza rispetto a quanto i membri operavano già sul campo ed ha determinato le dimissioni a catena come segno di rottura formale del contratto di lavoro.
22 settembre 2022 at 9:05
Interessantissima analisi di molte realtà che negli ultimi due anni e mezzo hanno dato vita alle catene di great resignations, portando a galla problematiche silenti esasperate dagli effetti nefasti del lockdown.
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